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Federigo Tozzi, l’Albergaccio e “Il Podere”

Pubblicato da in letteratura ·
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In un precedente articolo avevo già ricordato l’antico proprietario dell’Albergaccio, agli inizi del ‘900: Gerolamo Tozzi.Nato a Pari, aveva acquistato qui il podere, comprendente terreni, immobili e una bottega di alimentari molto attiva, che corrispondeva all’odierno civico 164.

A breve distanza, un altro signore suo coetaneo, anch’egli nato a Pari nel 1846, di nome Federico Tozzi, aveva acquistato nelle immediate vicinanze il podere di Pecorile, a cui l’Albergaccio è indissolubilmente legato da otto secoli di storia.A Pecorile infatti erano installate le forche, presso cui i condannati a morte venivano condotti dopo aver trascorso la notte all’Albergaccio.

Il figlio del sopra citato Federico, proprietario all’epoca anche della celebre trattoria Il Sasso in Banchi di Sopra, è lo scrittore Federigo Tozzi.

Inutile che ricordi l’importanza rivestita da quest’uomo nella letteratura del Novecento.Voglio invece qui menzionare alcuni passi de “Il podere”, edito nel 1921, dove abilmente descrive questa precisa zona di Siena dando ai lettori la sensazione di trovarsi di fronte a dei dipinti. E’ il ritratto di una Siena che non c’è più, una Siena preziosa rappresentata dalle nostre radici, la cui memoria cerchiamo ancor oggi di mantener viva.

Da una parte dell’aia c’era la capanna: un fabbricato piuttosto basso, tarchiato, con il tetto spiovente da due parti, fin quasi a terra; con l’uscio sciupato da lunghe spaccature: con un trogolo di legno appoggiato al muro; con due finestre che invece degli sportelli eran tappate da mannelle di paglia.
La parata era dall’altra parte dell’aia; piuttosto grande, fatta di mattoni doventati d’un rosso quasi nero; e, tra i mattoni, ciuffi di capperi. Attaccate alla parata, dinanzi alla capanna, la casa degli assalariati e quella padronale, con tre porte: alcuni correggiati, tra porta e porta, messi ad uncini di ferro; e, sotto le finestre, cinque scale di legno, da piante, infilate a due pioli. Di fianco alla casa, s’andava nel campo e nelle stalle; più basse e dietro.
Vicino alle stalle, un fontone; dove lavavano i panni, abbeveravano i bovi e mandavano il branco delle anatre: intorno al fontone, cinque salci e un orto rinchiuso con stocchi secchi di granturco. Da lì, una fila di cipressi a doppio; che salivano su un poggetto; dal quale si poteva vedere tutto il podere fino al confine della Tressa. In antico, la Casuccia era stata un piccolo ospedale per i pellegrini; e una mezza Madonna di terracotta era rimasta in una parete della stalla.
Quand’era piovuto molto, dall’aia si sentiva scrosciare la Tressa; e i piani si allagavano; i pioppi umidi e la creta lavorata luccicavano. Di Siena, dietro quattro o cinque poggi sempre più alti,quasi a chiocciola, si vedevano soltanto le mura; tra la Porta Romana e la Porta Tufi. Dalle mura in giù, i prati e i grani scendevano tagliati da poche strade; riunendosi a spicchi, verso qualche podere; con le case sui cocuzzoli dei poggetti, accerchiate dai cipressi. Si sentiva il treno della Val d’Arbia; quando, secondo i contadini, era segno di piovere.

[…]

Remigio s’appoggiò con i gomiti al cancello della strada. Tornavano a casa, verso Colle di Malamerenda e l’Isola, le ragazze che andavano tutti i giorni a Siena a portare le bombole del latte e ad imparare a far la sarta.
I mandorli e i peschi, sparsi su per le colline, erano quasi invisibili nell’ombra della sera: sebbene, sopra il sole tramontato, restasse una luce limpida a rischiarare quasi la metà del cielo. Un branco di avvinazzati passò, cantando. Dietro un barroccio, un gregge di pecore empì tutta la strada; e il cane si fermò a fiutare lo spigolo della capanna sciupato dai mozzi delle ruote.

[…]

Sui prati, che cominciavano a fiorire, passavano gli uccelli quasi sempre lungo la Tressa; e una brancata, almeno di una quarantina, si posò sopra un salcio; empiendolo. Le anatre uscirono dall’acqua del fontone, dentro il quale s’erano capovolte e rovesciate le fronde più lunghe degli altri salici già con le foglie verdi.
Le diligenze di Murlo e di Buonconvento arrivavano cariche di gente e di fagotti; e quelli dentro guardavano tutti insieme nella strada. Nell’aria c’era la giovinezza; e Remigio sentiva attaccarsi ad essa.

[…]

La Tressa, splendevole tutto il giorno, era restata con i suoi pioppi magri e storti, fogliuti soltanto in cima. La caldura aveva bruciato ogni cosa, e anche il grano pigliava un colore bianco che doventava sempre più giallo; e anche di notte si vedeva bene. Il terreno era così arroventito che senza gli zoccoli bruciava i piedi; e le passere, che varcavano le vallate da poggio a poggio, pareva che cadessero giù a strapiombo.
Ma, prima che gli assalariati portassero il fieno in capanna, il tempo si guastò. Poco dopo mezzogiorno, e in quel silenzio della campagna s’era sentito soltanto le campane della chiesa di Colle, il sole cominciò a essere meno limpido. Non c’erano nuvole ancora; ma, proprio nel mezzo del cielo, il turchino cominciò a doventare sempre più smorto; finché, all’improvviso, vi nacque una nuvola grigia che si faceva sempre più scura. Poi, altre nuvole, dello stesso colore e più bianche, si accostarono insieme. Pareva che dovessero pigliare fuoco, perché all’intorno scintillavano tutte e nel mezzo si facevano quasi nere. Quando tutte furono chiuse l’una con l’altra, un lampo abbarbagliò gli occhi e fece luccicare le ruote del carro, gli aratri e tutti gli strumenti di ferro su l’aia. La luce era livida; e a pena ci si vedeva. Allora, i tuoni cominciarono; come se avessero dovuto schiantare anche le case. E le prime gocciole, quasi bollenti, si sentirono picchiettare su le tegole e su i mattoni. Dopo un poco, l’acqua venne giù sempre più grossa; e il temporale durò quasi tre ore.
La Tressa dette di fuori, allagando tutte le parti più basse dei poderi. Perfino su i poggi, il fieno era stato sparpagliato e interrato. Era impossibile riporlo, perché nella creta ci s’entrava con tutti i piedi. Il giorno dopo ripiovve, benché si fosse levato un vento che faceva travolgere la fila dei pioppi; un vento che buttava giù le frutta come se crollasse le piante.

[…]

Egli sentiva un’inquietudine vaga e piena d’amarezza. Il sole era andato giù da una
mezz’ora, ma ci si vedeva bene lo stesso; benché nelle lontananze si fosse levata una nebbiolina azzurrognola, che s’infittiva sempre di più. Lungo la strada di Siena, s’accendevano i lumi dentro le case; e c’erano due o tre stelle che sembravano venute troppo presto. La Torre doventava rossa come il fuoco; e sembrava che tutti quei cocuzzoli tondi si radunassero attorno alla Casuccia.

[…]

Quando Berto tornò a casa, era buio. Già, dentro Siena, avevano acceso i lampioni; e quando giunse a Porta Romana, si vedeva il Monte Amiata come rizzato lì per chiudere l’orizzonte.
Egli entrò nell’osteria della Coroncina, e bevve mezzo litro, senza mettersi a sedere. Qualcuno lo salutò, ma aveva la smania di trovarsi alla Casuccia; perché gli venne in mente che gli avessero fatti chi sa quali torti durante la sua assenza e che gli dovessero capitare questioni feroci. Di rado, stava tranquillo! Non era più sicuro della propria volontà; e si sentì, un’altra volta, sul punto di piangere come in casa di Giulia.
Ma, ormai, alla Casuccia mancava un mezzo miglio, piuttosto meno che più.
Su l’aia, non incontrò nessuno; e, allora, dette un’occhiata alle stelle; come se conoscessero i suoi pensieri.

[…]

Quando furono al podere di San Lazzaro, Remigio si fermò:
«Lei si avvii; io tra un’ora sarò a casa. E ceneremo.»
«Se tu avessi in tasca da darmi qualche lira, comprerei il tonno alla Coroncina; dove, ora, ce l’hanno buono.»
Egli le dette cinque lire, e le suggerì che comprasse anche il salame.

[…]

Anche l’Osteria della Coroncina, che sorgeva a cinquanta metri da qui, celebre per le soste di senesi e non senesi, non esiste più.

Mi piace oggi immaginare, tramite i suoi scritti, il percorso del Remigio del romanzo, che altri non era che Federigo Tozzi, il suo transitare a piedi ogni giorno davanti all’Albergaccio per raggiungere il confinante podere.E quelle immagini che così magistralmente ha descritto nei panorami, nel mutare delle stagioni, sono ancor oggi qui vive e poco difformi da allora.




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